Nei due decenni che vanno dagli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta, in molti Paesi latinoamericani si sono registrate svolte autoritarie concretizzatesi in colpi di stato guidati dai militari. Lo scopo era quello di abbattere i regimi democratici che in questa sfera del nuovo continente hanno sempre stentato a consolidarsi.
L’eco della rivoluzione cubana, che a partire dal 1959 instaura nell’isola caraibica un regime che legherà la sua
sopravvivenza, in epoca di guerra fredda, all’alleanza con l’Unione Sovietica, era destinato ad avere un seguito in tutto il continente latinoamericano dove invece gli Stati Uniti d’America, per
motivazioni strategiche e geopolitiche, non intendevano far sviluppare gli ideali promossi dalla rivoluzione. Le dittature militari di questi anni, quindi, sono caratterizzate dalla paura che in
alcuni Paesi possano prevalere regimi politicamente ostili agli Stati Uniti.
La politica degli Stati Uniti riguardo alle altre Nazioni americane, agli inizi del XX secolo, si fondava sulla dottrina di Monroe e sul “corollario” che il
Presidente Theodore Roosevelt aveva formulato nel 1904 secondo il quale Washington ammetteva l’intervento negli affari delle Repubbliche americane. Progressivamente gli americani abbandonarono il
“corollario” Roosevelt ed il metodo dell’intervento militare, iniziando così a stemperare questa politica ma senza tuttavia rinunciare mai al diritto di intervento.
Questo atteggiamento, che sembrava in qualche modo annunciare la politica di buon vicinato che Roosevelt inaugurerà nel 1933, si manifestò nelle riunioni delle conferenze panamericane e negli sforzi americani per mettere fine ai conflitti tra i Paesi dell’America del Sud. Il dopoguerra, tuttavia, portò ad un raffreddamento tra i Paesi latinoamericani e gli Stati Uniti. Sul piano economico, infatti, il programma Marshall aveva provocato lo scontento di numerose Repubbliche di questa regione in quanto gli aiuti governativi degli Stati Uniti erano in effetti limitati e gli investimenti principali in questi Paesi provenivano solamente da capitali privati.
Tra tutti gli Stati sudamericani, l’Argentina fu quello che intrattenne i rapporti meno buoni con gli Stati Uniti. Durante la guerra, grazie alla presenza di
numerosi immigrati tedeschi, le organizzazioni naziste furono molto attive in Argentina e la Germania vi investì importanti capitali. Sebbene all’inizio si rifiutasse di rompere le relazioni
diplomatiche ed economiche con l’Asse, il 27 marzo 1945, a guerra praticamente già finita, l’Argentina si decise finalmente a dichiarare guerra alla Germania e al Giappone, senza dubbio per
essere ammessa alle Nazioni Unite e regolarizzare di conseguenza i suoi rapporti con l’Inghilterra e gli Stati Uniti.
Riprese le relazioni diplomatiche fra i due paesi, Spruille Braden, nominato ambasciatore Usa a Buenos Aires, ingaggiò una lotta accanita contro il governo argentino rimproverandogli la sua mansuetudine verso l’Asse e il suo carattere dittatoriale: lo scopo era quello di rendere impopolare il colonnello Perón e di impedirgli di essere eletto alla Presidenza della Repubblica. Invece Perón fu eletto presidente il 24 febbraio 1946, e fece mostra di avvicinarsi all’Urss, ma questa politica non durò molto e il 2 agosto il generale dichiarò che l’Argentina sarebbe stata sempre nel campo degli Stati Uniti precisando che “il comunismo è un grande pericolo che minaccia tutte le democrazie occidentali”. I rapporti tra i due Paesi americani migliorarono ma senza divenire mai realmente buoni.
Sebbene in piena guerra fredda l’America Latina fosse stata dichiarata zona di influenza degli Stati Uniti, ciò non si tradusse subito in un maggior dominio,
grazie anche al rafforzamento del meccanismo panamericano, il quale tuttavia non valse ad impedire che l’America latina diventasse campo di infiltrazione della propaganda o degli interessi
commerciali europei. Così, dopo la fase costruttiva degli anni del buon vicinato, sotto la superficie di una crescente collaborazione, si formavano le crepe di un nuovo e più profondo dissenso.
La guerra aveva accelerato il cambiamento socio-economico dell’America Latina e l’impegno finanziario degli Stati Uniti e le relazioni tra le due Americhe non potevano che risentire sia dello
spostamento del fulcro degli interessi degli stessi Stati Uniti sia del crescente peso che la superpotenza americana esercitava nel mondo.
I rapporti con l’Argentina non furono segnati dal problema del comunismo ma dal proseguire della rivalità già esistente prima e dopo la seconda guerra
mondiale. La diffusa ostilità verso gli Stati Uniti, che si era attenuata durante la fase della politica di buon vicinato, era ricomparsa massicciamente nel dopoguerra. L’esempio argentino
divenne ben presto contagioso ma incominciò a preoccupare gli Stai Uniti solo allorchè apparvero in esso venature filosovietiche o filocomuniste.
Fu solo a partire dagli anni Sessanta che l’America latina venne investita dalla competizione Usa-Urss. La crisi di Cuba nel 1962 e l’affermazione del suo leader Fidel Castro, imposero al governo di Washington di riconsiderare la sua strategia latinoamericana e, in secondo luogo, mostrava che l’America Latina attraversava fasi di tensione socio-economiche che potevano spalancare le porte al ripetersi di casi uguali a quello cubano; questa situazione portò quindi una politica di sorveglianza che oltrepassava la soglia dell’attenzione generica con forme di intervento più diretto. La percezione del mutamento in atto era stata chiaramente mostrata dall’allora Presidente Kennedy con questa frase: “Pur di evitare infiltrazioni comuniste, anche i regimi dittatoriali devono essere tollerati e aiutati” e con l’avvio dell’Alleanza per il progresso nel 1961.
All’inizio degli anni Settanta la svolta generale verso la formazione di governi militari venne accolta senza turbamenti da parte dell’amministrazione Nixon, se non altro perché buona parte degli ufficiali che li sostenevano erano stati formati in accademie degli Stati Uniti. Nel corso di questi anni, dunque, i governi democratici di molti paesi latinoamericani vengono progressivamente abbattuti per essere sostituiti da regimi militari dittatoriali. L’esilio, la prigione, la tortura, le esecuzioni, diventano in questa fase un fenomeno di massa, armi di repressione sistematicamente usate dai militari per eliminare dissidenti, oppositori politici o presunti tali. Nelle nazioni in cui si instaurano tali regimi ha inizio una vera e propria “guerra interna” contro il “nemico interno” che provoca numerosi vittime e ripetute violazioni dei diritti umani. Negli anni Sessanta e Settanta, il concetto di “nemico interno” venne adottato in America Latina dai vertici militari delle dittature golpiste in funzione “difensiva”, anticomunista e antisovversiva in generale.
In un clima di Guerra Fredda e di scontro tra Est ed Ovest, l’idea alla base è quella per cui si
considera che il pericolo per uno Stato non provenga più tanto da minacce esterne, che possono quindi minare le frontiere geografiche della nazione, bensì da minacce interne, dai “sovversivi”,
che possono minacciare le “frontiere ideologiche” dello Stato. In sintesi, in nome dell’anticomunismo e per paura che gruppi e partiti d’ispirazione marxista, presenti negli Stati
latinoamericani, potessero destabilizzare o minacciare gli interessi economici e geopolitici, gli Stati Uniti iniziano a promuovere e finanziare colpi di stato e repressioni in diversi paesi del
Sud America. Posto in questi termini però il discorso risulta riduttivo e, come spesso si è fatto, si rimanda a fattori unicamente esterni la complicata analisi legata alle dittature militari
degli anni Sessanta e Settanta. Infatti va ricordato che in molti Paesi latinoamericani l’intervento diretto e indiretto dell’esercito nella politica e nell’amministrazione dello Stato è una
pratica consolidata sin dai processi di indipendenza dal regno iberico avvenuti durante la prima metà dell’Ottocento .
Nel corso degli anni Settanta, quindi, i regimi militari prendono progressivamente il potere in tutto il Cono
Sud del continente latinoamericano, anche in quei Paesi con consolidate tradizioni democratiche quali il Cile e l’Uruguay, mentre in altri paesi come
Brasile, Paraguay, Argentina e, più in generale, nelle Repubbliche centroamericane, l’esercito, che a più riprese interviene nella vita politica
dello stato, inaugurerà una nuova stagione di colpi di stato militari che si differenzieranno notevolmente dai precedenti soprattutto per l’intensità e la brutalità dei metodi
repressivi.
Particolarmente complicato risulta analizzare le ragioni per cui anche in Argentina nel 1976 i militari si impossessarono, attraverso un colpo di stato, del potere politico. Per spiegarlo occorre immediatamente dire che l’Argentina, a differenza del Cile e dell’Uruguay, nel corso della sua storia politica ha assistito a numerosi colpi di stato, tanto che questa pratica sembra quasi acquisita all’interno del normale alternarsi dei governi del paese. La lunga notte dei “golpe”, dittature e contraccolpi armati in Argentina, inizia nel 1930 e termina veramente solo nel 1983. In più di cinquanta anni di storia solo due presidenti riescono a giungere alla fine del loro mandato di governo, che la Costituzione argentina fissa in sei anni, e non è un caso che siano entrambi ex generali dell’esercito in congedo. Ogni dieci anni, infatti, il paese vede alternarsi un golpe militare. Il 6 settembre 1930 il generale José Félix Uriburu prende il potere deponendo il presidente Hipólito Yrigoyen.
Da questo momento fino al 1940 i militari di fatto sono l’ago della bilancia della politica argentina, nessun Presidente
di nessun partito può governare la nazione senza il loro consenso. Nel giugno del 1943, mentre i politici dei vari partiti sono divisi tra interventisti e chi invece preferisce tenere fuori
l’Argentina dal secondo conflitto mondiale, i militari escono dalle caserme per prendere nuovamente le redini del potere politico. Perón arriva al potere con l’intenzione di fare dell’Argentina
una nazione “economicamente libera, politicamente sovrana e socialmente giusta”.
Per capire un po’ meglio questo movimento sociale e politico, il “peronismo”, che prende nome dal suo leader carismatico a cui ancora oggi nell’Argentina contemporanea partiti, leader politici e presidenti si rifanno, è utile ricordare che, come movimento politico, non dà solo voce e protagonismo a strati sociali fino a quel momento invisibili e silenziosi. Con la sua particolare struttura argomentativa il messaggio peronista compie infatti una doppia operazione: mentre innalza le masse allo status di soggetto di cittadinanza politica, rafforza i tratti carismatici di un leader che appare come l’enunciatore di una proposta di giustizia sociale unificatrice di entità quali la Nazione, il Popolo, la Patria.
Inoltre l’avvio del fenomeno peronista significò il superamento di vecchie differenze e contrapposizioni, giacchè a partire da Perón l’accettazione o il rifiuto della sua leadership divennero elementi di definizione politica. Perón si trasformò quindi nell’incarnazione dell’identità argentina, era riuscito a recuperare l’Argentina dalle mani degli stranieri vendicando anche il vecchio senso di umiliazione nei confronti dell’Europa e degli Stati Uniti.
L’Argentina resta sotto i controllo di Perón fino al 1955. A settembre di questo anno le forze armate, con un colpo di stato, lo allontanano dalla presidenza.
Il generale Eduardo Lonardi diventa Presidente provvisorio dichiarando l’avvento di una revolución libertadora che non avrà “né vincitori né vinti”. Ha inizio, da questo momento in poi,
un periodo in cui i peronisti saranno esclusi dalla vita politica del paese, un periodo in cui i governi che si avvicendano cercheranno sistematicamente di smantellare il modello politico
costruito nel decennio precedente. Appare chiaro come la vita politica di un Paese, in cui si assiste all’esclusione di una consistente forza politica e sociale come il peronismo, non possa
procedere verso la stabilità e l’equilibrio democratico. Negli anni in cui Perón è costretto all’esilio (1955-1973) l’Argentina è infatti percorsa da continue tensioni sociali che vedono
contrapporsi due parti in cui da un lato operano i settori popolari che si identificano con il peronismo e che sono spesso costretti ad esercitare la loro pressione in maniera
extra-istituzionale, e dall’altro quei settori che intendono ricostruire le libertà e il pluralismo.
Questo “dualismo” costringe l’Argentina ad una lacerazione interna dovuta alla polarizzazione tra settori popolari e fronte antiperonista. Il nazionalismo restauratore continuava a influenzare ideologicamente i diversi governi militari: questi accoglievano con soddisfazione l’eredità totalizzante ed escludente che dalla fine dell’Ottocento serviva a definire l’identità e si proponevano come i depositari assoluti dell’argentinità e gli artefici della salvezza della nazione.
Furono questi i principi con i quali il golpe del 1976, comandato dal generale Rafael Videla, insediò nel paese la dittatura più sanguinosa della storia argentina. Tre anni prima, l’11 Settembre 1973, un altro generale, Augusto Pinochet, rovesciava in Cile il regime democratico socialista di Salvador Allende, instaurando il terrore nel Paese. Videla e Pinochet sono stati in seguito processati e condannati per crimini contro l’umanità.